Dicembre porta con sé il grande dilemma delle tavole italiane: parliamo dei canditi nel Panettone. Meglio con o senza? Spesso questo ingrediente viene scartato per partito preso, forse a causa di esperienze passate con prodotti industriali dove la dolcezza stucchevole prevaleva sull’aromaticità.
Tuttavia, ridurre il candito a semplice “pezzo di zucchero” è un errore di valutazione. Nella grande arte bianca, la frutta candita non è solo un abbellimento o una questione di gusto personale: è un pilastro strutturale che garantisce la riuscita tecnica e la shelf-life del prodotto. Oggi, per la nostra rubrica Ingredienti sotto la lente, scopriamo la scienza che si cela dentro quel cubetto d’arancia.
Canditi nel Panettone: l’arte della conservazione per osmosi
Per capire l’importanza dei canditi nel Panettone, dobbiamo partire dalla tecnica. La canditura è un metodo di conservazione per “sostituzione”. Attraverso un processo lento e rispettoso della materia prima, l’acqua libera contenuta nella frutta viene progressivamente sostituita da una soluzione zuccherina.
Questo avviene per un principio fisico ben noto: l’osmosi. Immergendo il frutto in sciroppi a concentrazione crescente (misurati in gradi Brix), l’acqua migra verso l’esterno e lo zucchero penetra nelle cellule vegetali. Il risultato è una polpa che mantiene la sua turgidità strutturale ma diventa un ambiente ostile alla proliferazione batterica, garantendo la conservazione senza l’uso di conservanti aggressivi.
L’equilibrio igroscopico e il parametro Aw
È proprio questo processo di sostituzione a generare il valore tecnico più importante, rendendolo insostituibile rispetto ad altre forme di frutta. Tutto ruota attorno all’Attività dell’Acqua (Aw), un parametro che indica l’acqua “libera” disponibile per le reazioni chimiche.
Perché un maestro pasticcere non usa frutta fresca o disidratata?
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La frutta fresca possiede un’Aw troppo alta (circa 0.98): una volta nel forno, rilascerebbe acqua incontrollata creando muffe in pochi giorni.
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Al contrario, la frutta disidratata (Aw 0.50-0.60) tenderebbe a reidratarsi sottraendo umidità alla mollica del panettone, seccandolo precocemente.
Il candito artigianale, invece, raggiunge un’Aw di circa 0.70-0.75, un valore quasi identico a quello di un panettone artigianale cotto. Si crea così un perfetto equilibrio igroscopico: il candito non cede umidità in eccesso e non ne ruba all’impasto.
Ecco perché i veri canditi nel Panettone agiscono come un “cuscinetto”, stabilizzando l’umidità interna e rallentando il raffermamento del dolce nel tempo.
Riconoscere la qualità: Trasparenza e Texture
Quando un candito è realizzato rispettando questi principi fisici, la differenza è tangibile anche per il consumatore meno esperto:
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Traslucenza: Lo zucchero, penetrando perfettamente, modifica l’indice di rifrazione della polpa, rendendola simile a una gemma traslucida e brillante, non opaca.
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Scorza vs Polpa: In un candito di pregio (come un’Arancia Washington o un Cedro Diamante), si percepisce distintamente la differenza di texture tra la parte bianca (albedo) e la scorza ricca di oli essenziali.
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Assenza di cristallizzazione: L’uso sapiente dello sciroppo di glucosio in combinazione col saccarosio impedisce allo zucchero di ricristallizzare, garantendo un morso morbido e fondente, mai “sabbioso”.
Il candito non è dunque un nemico da scartare, ma un alleato tecnologico che lavora silenziosamente per mantenere il lievitato morbido e profumato.
Certo, per il pasticcere rappresenta una sfida notevole: la sua forma cubica e i suoi spigoli mettono a dura prova la maglia glutinica in fase di impastamento… ma questa è una storia di meccanica che vi racconterò nella prossima puntata. Per ora, godetevi la chimica del gusto.
Con Passione e Rigore,
Katia Oldani Biologist Pastry Chef
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